Fu un momento. Si trattò di un momento. Il signor K. era alla guida della sua macchinetta, anche oggi attraversava una strada -viveva questa strada- come una lingua che lecca sinuosa la pelle del mondo prima di farci l’amore. Il signor K. veniva da una stagione di ebbrezza. Stava vivendo una grande ebbrezza, che si andava trasformando col trascorrere del tempo. Chiunque abbia familiarità con Dioniso sa infatti che l’ebbrezza non è mai uguale a se stessa: essa si trasforma e muta col passare del tempo, dei minuti dei giorni dei mesi delle stagioni.
K. era felice. Ma quel giorno, si trattò di un momento, socchiuse gli occhi per la prima volta. Rischiò di addormentarsi alla guida all’alba di una primavera che regalava una di quelle giornate in cui il sole è padrone del mondo e delle menti. Il sole dei primi giorni di primavera è il più irresistibile, il più sensuale: esso giunge a sostituire il suo gemello invernale, che puntualmente tradisce le aspettative cariche di attesa degli animali in cerca d’energia; compresi gli esseri umani. Il sole di primavera è il primo in grado di dare tepore ai corpi, agli sguardi, agli entusiasmi.
E fu dunque in un momento che K. ebbe a vivere questo paradosso. L’ebbrezza che recava dentro di sé, l’ebbrezza che leccava la strada, le sue cosce ed i suoi seni, l’ebbrezza che voleva tuffarsi nell’infinito grazie a un trampolino fatto di raggi di sole. Fu quell’ebbrezza a tramutarsi in un momento d’incoscienza, in cui i contorni delle cose si fanno mediocri e polverosi, lo sguardo si appanna e non apprezza, la carne del mondo diventa lontana dal nostro sentire.
K. socchiuse le palpebre, fu un momento. Rischiò di finire fuori strada a velocità sostenuta; si, perchè anche questo si sa, che sulla strada non si possono mettere in scena languide e lente e teatrali e ripetitive passeggiate, sulla strada è necessario penetrare il mondo con gli occhi e col corpo.
Accortosi con l’iride di nuovo enorme, di nuovo girasoli che cercano la propria fonte. Accortosi di tutto, K. si salvò la vita sterzando all’ultimo minuto, poco prima del fossato che puntualmente accompagna ogni strada. Tutte le strade sono incastonate in un fossato perchè tutte le strade sono la realtà. Sono incontro e possibilità, sono viaggio e percorso, sono partenza e lontananza. Tutte le strade per questi caratteri originari possono segnare indifferentemente unioni o separazioni. Le strade convergono, le strade divergono. Corrono parallele o voluttuose si incrociano.
K. accostò per chiedersi chi era. Chi era lui, chi erano insieme lui e la strada. Scese dalla macchina e si mise a sedere sul ciglio della carreggiata, quel punto in cui l’asfalto si confonde con la terra e un ciuffo di foglie d’erba segna l’instabile confine, trincea di una folle lotta tra uomo e natura sul terreno del mondo. K. pensò che il pulviscolo dell’umanità non dovrebbe arrivare a tali rigurgiti di tracotanza. E questo vide, K., anche nei suoi occhi socchiusi di qualche istante prima.
La presunzione inconscia di conoscere tutte le strade fatte e tutte quelle da fare. La presunzione inconscia di sapere tutte le parole dette e tutte quelle ancora da dire. La presunzione inconscia di dare per scontato il sole. Ma la presunzione è una scelta di comodità e codardia. Un girasole appassito tra nuvole grigie è testimone, dare per assodata una continua scoperta di energia equivale a morire presto.
Guardando il sole, K. versò lacrime per la sua condizione. Senza che se ne accorgesse, ai margini della sua ebbrezza era germogliata una grande miseria, fatta di inibizione e di sguardi distratti sul mondo. Stava per morire di questo, incidente mortale che segna l’abbraccio lacerante delle lamiere e che sfigura il corpo dissanguato.
Montando in macchina per riprendere il proprio percorso, K. sentiva dentro di sé un amore profondissimo, che mai era scomparso e che oggi tornava a dare fremiti. Baciare le labbra che si desiderano, è questa la carnosità sublimata del tatto.
Ebbro, stava per ripartire gravido di incognita ed entusiasmo. Era questo il senso del percorso, una precarietà essenziale che come la rugiada inumidisce perfino le strade più battute, quelle che trasmettono idee di familiarità e confidenza e rifugio.
Posto che la vita finisce, ogni esperienza del vitale può finire. Il mondo è vasto, sta a noi la scelta nelle moltitudini, nel fracasso di un crocevia. Scelte definitive non esistono, la scelta è un esercizio quotidiano di libertà.
Questi ed altri pensieri maturava K. ruotando le chiavi per l’accensione del motore. Aveva come l’impressione che le parole che andava raccontandosi in silenzio fossero dei frutti che stavano cantando un saluto alla primavera, dopo un inverno particolarmente rigido che li aveva messi in difficoltà. In effetti, ai bordi della strada, oltre il fossato, gli alberi arrossivano ed iniziavano a tradire con pudore il nuovo parto delle gemme.
Poi, ultimo pensiero cosciente prima di immergersi nella meravigliosità del percorso, K. ricordò con folle certezza: era stata la strada a parlargli quando si stava addormentando. Era impossibile ma era il fatto così come era andato; e d’altronde, non c’erano testimoni ad eccezione del sole e delle foglie d’erba. La strada aveva parlato a K. per tuffarsi nel suo cuore, aveva chiesto a K. di guardare dentro le sue fibre più intime e di cercarsi. La strada avrebbe potuto scegliere di essere di tutti, o quanto meno di essere di altri.
Ma fu un momento. K. riprese il cammino con rinnovata coscienza e con occhi colmi di entusiasmo e inquietudine. E’ questa la contraddizione che ci è dato vivere per germogliare veramente.